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La Battaglia di Campaldino (1289): supremazia fiorentina o colpo di fortuna?

Aggiornamento: 18 ago 2023

«Quelle, che mura sono?» «Non sono mura, mio signore. Sono gli scudi dei nemici» Guglielmino degli Ubertini strinse le labbra sottili: aveva un brutto presentimento. In quarant'anni di episcopato ne aveva fatte e viste parecchie - ogni ruga del suo volto lo testimoniava, ed aveva accumulato una grande esperienza, che stavolta sembrava sussurrargli mesta la sua fine. Guardò la sua scorta: un drappello di giovani alla loro prima battaglia, ma fieri e composti, forti di anni di addestramento e uniti dal rispettoso timore verso di lui. Guglielmino cominciò a pregare in silenzio per loro, come non gli accadeva ormai da tempo; alla sua anima avrebbe pensato dopo, sapeva bene che sarebbe stata una cosa lunga. Si voltò verso Certomondo e i suoi occhi stanchi cercarono il conte Guidi, ma questi era occupato a guardare da tutt'altra parte: stava soppesando l'armata nemica.


Li conosceva bene, i fiorentini, e sapeva che quel blocco centrale di cavalieri non avrebbe retto alla carica ghibellina: erano mercanti, bottegai, banchieri, tutta gente abituata a fare affari, non la guerra. Ma, da buon giocatore di scacchi, Guido Novello conosceva anche l'importanza della fortuna, che con un guizzo improvviso può scompigliare tutte le più solide certezze e tutte le più infallibili strategie. Perciò stava meditando un piano da usare in caso di sconfitta: era conscio che, a quel punto, sarebbe rimasto davvero solo lui al comando della causa ghibellina in Toscana.


Fissò il suo sguardo impenetrabile sulla riserva guelfa: un bel numero di fanti e circa duecento cavalieri al comando di Corso Donati, detto "il Barone". E non a caso: era bello e altero come un Apollo, spietato e ambizioso come un Catilina. In quel momento stava latrando ordini per disciplinare la sua schiera di pistoiesi: esigeva obbedienza assoluta, perché, qualsiasi cosa fosse successa durante la battaglia, lui doveva brillare, oscurando tutti gli altri comandanti. Sputò in terra e con un rapido movimento della testa aggiustò una ciocca di capelli, ignaro che di lì a nemmeno vent'anni quella chioma sprezzante si sarebbe lordata di fango e sangue. Improvvisamente un pensiero gli balenò in testa: "Vediamo dov'è il marito di mia cugina Gemma, quello sbarbatello buono solo a scribacchiare poesie". Puntò i piedi sulle staffe e scrutò verso il reparto dei feditori, cercando l'insegna del sesto di San Pietro; lo trovò subito: eccolo lì, tutto tremebondo su di un mediocre cavallo da guerra. "Ma tu guarda quanto è bestia: l'esercito non ha ancora finito di disporsi e già si è messo l'elmo… Schianterà dal caldo ancor prima che arrivino gli aretini a squartarlo". A quel pensiero gli affiorò un bieco sorriso. "Ma sì, che muoia, almeno Gemma sarà libera e la daremo in sposa a qualcuno che valga davvero. Magari un Adimari o un della Tosa".

Dante non sentiva gli occhi di Corso su di sé. Aveva la testa in fiamme e il respiro mozzo, il suo cuore batteva nel petto come un sasso su di un lago ghiacciato, e la paura gli artigliava i visceri e glieli contorceva. La cotta di maglia pesava, pesava tanto, e Dante non udiva altro che una cacofonia ovattata; voleva voltarsi verso il suo amico Guido Cavalcanti, ma non riusciva a vedere niente. La paura stava diventando panico. Basta, doveva respirare! Si tolse quello stramaledetto elmo e abbassò il cappuccio della cotta. I raggi del sole lo abbacinarono, ma l'aria aperta, seppur afosa, era sempre meglio di quell'inferno di ferro. Togliendosi il sudore che lo accecava, incontrò lo sguardo di Guido, impaurito come lui, e questo gli fece tornare un poco di forza. Dette una pacca amichevole al proprio cavallo, una bella bestia che però era costata tanto: la sua famiglia si era indebitata per fornirgli l'equipaggiamento per la battaglia. Questo lo spronava a non macchiare il buon nome degli Alighieri: non si sarebbe comportato da vigliacco, avrebbe combattuto meglio che poteva. Evitò di guardare davanti a sé, perché a poche centinaia di metri troneggiava Bonconte da Montefeltro: un anno prima, alle Giostre del Toppo, aveva falciato i senesi come giaggioli in un campo. Ed eccolo lì, pronto a falciare anche lui. Dante alzò gli occhi al cielo, così ampio, azzurro e distante. Quanto era bello il mondo, quanto era bella la vita! Non l'aveva mai amata tanto come in quel momento. Chissà se quella sera avrebbe rivisto le stelle… Fece un giuramento a se stesso: se fosse sopravvissuto, non avrebbe più combattuto con la spada, bensì con le parole. E le avrebbe usate per cantare l'universo.

 
Dettaglio di un disegno che raffigura la Battaglia di Campaldino, visibile nel Castello dei Conti Guidi a Poppi (AR)

“Un errore di valutazione" questa, secondo lo storico Niccolò Capponi, la causa della sconfitta ghibellina a Campaldino (1289). Classe 1961, laureato in scienze politiche e con un dottorato in storia militare, si è recato, fonti alla mano, nella piana casentinese per ricostruire le fasi della battaglia e qui ha scoperto che nelle cronache, scritte principalmente da autori guelfi (Dino Compagni e Giovanni Villani), c'era qualcosa che non tornava. Troppe incongruenze, troppe coincidenze.

Insieme allo storico americano Kelly DeVries, ha iniziato un intenso lavoro di ricerca culminato nel volume "La Battaglia di Campaldino 1289. Dante, Firenze e la contesa tra i comuni", presentato sabato 9 novembre 2019 nel Teatro Vasariano di Arezzo durante la conferenza storica organizzata dall'associazione Signa Arretii a 730 anni dalla battaglia.

"I ghibellini non hanno perso perché incapaci - ha affermato il prof. Capponi - hanno perso perché hanno sopravvalutato le virtù militari dei fiorentini. Questi ultimi, rivelandosi 'più incapaci' del previsto, hanno fatto saltare la strategia ghibellina che consisteva nell'utilizzare 12 paladini, combattenti preparati e valorosi, come esca per l'esercito nemico. I ghibellini, infatti, avevano così previsto due scenari possibili: o l'esercito fiorentino, alla vista dei valorosi guerrieri, avrebbe battuto in ritirata o i paladini, fingendo una ritirata, avrebbero attirato l'esercito guelfo in trappola".


Purtroppo (per noi aretini) non si è verificata nessuna delle due ipotesi. Anzi, è venuto fuori un terzo scenario: talmente impreparata (e improvvisata) era la prima linea fiorentina che i 12 paladini non hanno avuto problemi a sfondarla. La seconda fila di fanteria ghibellina, vedendo lo sfondamento del contingente dei paladini, è avanzata contro l'esercito nemico ritrovandosi stretta in una morsa che è stata la causa principale della disfatta.


"La sconfitta ghibellina è stata dunque un questione di fortuna - continua il professore - come ammette anche Dante, nel Canto V del Purgatorio (vv. 91-93), quando rivolgendosi a Buonconte da Montefeltro afferma: 'Qual forza o qual ventura, ti travïò sì fuor di Campaldino, che non si seppe mai tua sepultura?'. Il poeta, testimone della battaglia, usa volutamente la parola 'ventura' costatando, tra le righe, quanto 'la sorte' abbia inciso nella vittoria guelfa". Egli sapeva, e forse non era il solo, che l'esercito fiorentino non era all'altezza di quello ghibellino, anche se quest'ultimo era numericamente inferiore, e si è reso conto che 'la ventura' ha ricoperto un ruolo decisivo per le sorti della battaglia.


Spesso ci si chiede come mai lo scrittore fiorentino di non abbia mai redatto una cronaca di questo importante e decisivo scontro, a cui ha preso parte. Cosa insolita per un grande narratore come Dante. A questo proposito il professore ha fatto notare come molte suggestioni e immagini dell'inferno dantesco possano aver tratto ispirazione dalla battaglia. Vedasi il Canto VI, dei golosi, dove i dannati sono nudi e semi-sommersi in un fango puzzolente, sferzati da un'eterna pioggia, fitta e mista a grandine. Proprio come i cadaveri di Campaldino, spogliati di tutto e ammassati nel fango misto a sangue e sterco, colpiti da un violento temporale nel pomeriggio dopo la battaglia. Vedasi anche il Canto XXVIII, quello dei seminatori di discordia, dove i dannati sono martoriati da ferite di spada, esattamente come quelle che venivano inflitte ai combattenti durante le battaglie del XIII secolo – Campaldino compresa.


Articolo scritto per il bimestrale "Il Bastione" e pubblicato nel numero di dicembre 2019. Post consigliato: Il Castello dei Conti Guidi (AR)

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